Mar 17

Il Lettino

Image-1Sarà la mia indole ribelle, sarà che ho un’innata passione per le cose che “non si fanno”, sarà che adoro trasgredire che io le “sbarre” proprio non le tollero. Ho una naturale insofferenza per le sbarre, qualsiasi esse siano. Da giovane scavalcavo i cancelli degli stadi per seguire i concerti da sotto il palco, tiravo il motorino a chiodo per evitare la chiusura del passaggio a livello passando all’ultimo coricata sul manubrio. Quando lavoravo in comunità coi ragazzini sotto tutela, spiegare loro che dovevano stare “dentro” era uno sforzo incredibile, al quale sottostavo per il loro bene, ma a un costo eccessivo per la mia anima.

La questione si è ripresenta quando è arrivato il momento di mettere mia figlia nel lettino, il mio pensiero non riusciva a formulare altro: io dietro le sbarre non ce la metto. Eppure quale altra alternativa avevo?

unnamedSono tornata in Thailandia quando Lanna aveva sette mesi e devo ammettere che si è abituata al tuttonuovoinunavolta con qualche difficoltà e il sonno è uno degli aspetti che ne ha risentito maggiormente. Durante il primo mese si attaccava al seno molto spesso e talvolta per qualche ora: mi sembrava di essere tornata in dietro di 6 mesi! Di notte, quando la mettevo nel suo lettino e si sentiva spostare, si svegliava subito, anzi prima di subito. Finché una sera mio marito dispone a terra un materasso di una piazza e mezza, alto poco più di quattro dita. Mette le lenzuola, sistema due cuscini ai lati e il dudù: io non ce la metto lì sopra neanchepertuttol’orodelmondo, ho pensato! Di fronte a questa novità ho puntato i piedi poiché non potevo accettare un cambiamento di questa portata: anche se è contro la mia indole, i bambini devono dormire nel loro lettino e lo dico io e quel vivace gruppetto di mamme che ho nella testa da tempo o schemi mentali o chiusure culturali o come si chiamano.

Avevo letto, non ricordo più dove, che è consigliabile non prendere il bambino nel lettone con mamma e papà durante i risvegli notturni, mentre è preferibile che sia la mamma a coricarsi di fianco al bambino per tranquillizzarlo o per la poppata – e chi l’ha detto che il co-sleeping si fa solo nel lettone? Io questa cosa non la ricordavo, certo è che nel mio caso ha funzionato e ho risolto il problema del sonno mettendo mia figlia a dormire in terra, come si usa in Thailandia. Ora quando si sveglia mi corico di fianco evitandole giri inutili dentro e fuori il lettino. Se evitare l’utilizzo di poltroncine, girelli, box, ecc. stimola lo sviluppo psico-motorio, credo che il contatto a terra anche durante le ore del sonno infonda tranquillità e senso di pace al bambino che si tranquillizza e dorme più a lungo. Dobbiamo ricordare che per gli antichi la terra era simbolo della grande madre, era considerata la madre di tutte le madri ed è come se affidassimo il nostro bambino o bambina nelle braccia di qualcuno di più saggio ed esperto. Quindi: quale culla migliore della madre di tutte le madri?

Sembra quasi che fuori dalle mie rigidità culturali ci sia qualcosa di interessante da scoprire, e che il contatto con culture diverse sia fonte di ispirazione.

Vita da mamma in Thai…to be continued..

Mar 02

Il Seggiolone…

Fare la mamma in un Paese che non è il mio talvolta è molto dura: “che cosa ha detto il pediatra? Che frutto è quello? Che cosa c’è scritto sulla scatola? Dove trovo la passata al pomodoro per fare il sugo?”.

FullSizeRender2Sono arrivata in Thailandia quando la mia bambina aveva 7 mesi e la prima difficoltà si è presentata al momento della pappa: non avevo un seggiolone e, in tutta l’isola di Phuket, sembrava che non esistesse un negozio dove acquistarne uno. Mio marito è thailandese, ha cinque sorelle e tre fratelli, ognuno di loro ha dei figli che a loro volta hanno avuto altri figli, alcuni dei quali già in età da matrimonio e altri ancora molto piccoli. Nelle loro case non c’è il seggiolone e io mi domandavo dove sedevano i bambini. In Italia, seduta sul seggiolone – bella dritta! – Lanna finiva la sua pappa nel giro di poco tempo. In Thai, mi sono arrangiata a terra dove era a diretto contatto con i suoi piedini, coi quadratini del tappeto, col cuscino e tutto ciò trovava – del resto a 7 mesi, tutto del mondo è interessante! E’ vero che abitiamo in un piccolo paese, ma l’occidente con i suoi centri commerciali era arrivato anche qua. Eppure nessuno sapeva indicarmi dove poter comprare un seggiolone. Mi ci sono voluti pochi giorni e alla fine ho capito: il seggiolone non esiste nella testa dei thailandesi o almeno non in quella della famiglia di mio marito!

FullSizeRenderLa famiglia thailandese è, in genere, una famiglia allargata. Genitori, figli, nipoti vivono insieme o vicino, e la mamma non è mai da sola, bensì può contare sull’aiuto di tutti, anche delle nipotine che a 10 anni giocano a fare la mammina! Io cercavo un seggiolone per la pappa quando i locali preferiscono mangiare a terra. I bambini di pochi mesi, quando ancora non camminano, stanno in terra o in braccio ai genitori, ai nonni, agli zii, ai nipoti. Il piccolo nucleo familiare non esiste e anche se la mamma lavora, a casa ci sono almeno quattro persone che possono occuparsi del bambino. Un pomeriggio, ho digitato su google “bambino e sviluppo motorio”, “bambini a terra”, “il pediatra consiglia”. Ho trovato moltissime informazioni sull’importanza di tenere i bambini per terra, aspetto che favorisce lo sviluppo motorio e l’esplorazione, utilizzando il meno possibile seggiolini e poltroncine. Leggevo che i pediatri sconsigliano il box, in quanto il bambino potrebbe alzarsi sulle due gambe quando ancora l’apparato scheletrico e muscolare non sono in grado di reggerne il peso, e il girello poiché impedisce la fase di gattonamento, essenziale per l’esplorazione e lo sviluppo motorio. “Guarda te questi thailandesi!” mi sono detta e ho iniziato a domandarmi quanto le comodità e l’attrezzatura create ad hoc per i nostri bambini anziché dare non tolgano loro qualcosa. Ad esempio, è vero che un bimbo nel box è al sicuro, sul seggiolone sta dritto, nel girello si muove facilmente, ma forse attraverso questi strumenti impediamo loro di sperimentare una sicurezza interiore fatta di esperienze, di prove ed errori che portano a scoperte nuove e che li aiutano a crescere.

Oggi Lanna ha ventidue mesi e da più di un anno il seggiolone è finito nell’armadio. Si rifiuta di stare sul passeggino, ama camminare a piedi nudi e spesso preferisce mangiare seduta a terra. Io, nel frattempo, ho capito che le difficoltà che ho incontrato o che temo di incontrare hanno a che fare con un piccolo gruppo di mamme che si trova nella mia testa e che non fa altro che darmi addosso con affermazioni quali: “questo non si fa, i bambini devono indossare le scarpe e si mangia tutti seduti a tavola!”. Sssssssst…devo trovare il modo di zittirlo…

 

Feb 16

Perché vivo in Thailandia parte II°

DSCN0900Ero pronta a ritornare casa, la mia vacanza in Thai poteva anche terminare al ritorno dalla giungla selvaggia. Mancava ancora una settimana e avevo voglia di dormire, pensare poco, cazzeggiare. Così da Chang Mai sono partita per Phi Phi Island, incantevole tesoro del mare delle Adamantine. Le giornate trascorrevano lente poiché non avevo alcun impegno o obbligo temporale da rispettare: la mattina andavo al porto, prendevo una long tail boat (la tipica barca thailandese, simile alla gondola veneziana) e stavo in mare aperto, rimanevo in acqua per ore, coi pesci, nelle grotte, su e giù dagli scogli a martoriarmi i piedi, mentre nel tardo pomeriggio stavo in spiaggia, all’ombra delle palme a leggere, mangiare patatine fritte e bere la mia birra ghiacciata.

DSCN0780Phi Phi è anche una discoteca a cielo aperto 24 h su 24 e una notte un giovane di vent’anni bussò alla mia porta per invitarmi a una festa – divertente ma: poteva essere mio figlio!  Così decisi di rifare lo zaino e di partire. Chiesi al ragazzo che gestiva la guesthouse di indicarmi un posto per pensionati: “vai a Phuket, ti consiglio Kamala o Surin, lì non c’è nulla”. La Lonley Planet descriveva Kamala come un paesino di pescatori, frequentato da famiglie con bambini piccoli; mi colpì Surin poiché la sera, il lungo mare si riempiva di chioschi dove i locali cucinano il pesce fresco. Con un nave veloce sono arrivata a Phuket, dove ho preso un taxi per Surin. Ancora mi chiedo come sarebbe oggi la mia vita se non fossi arrivata a Kamala.

DSCN0897Di fatto devo ringraziare quel tassista che non conosceva l’indirizzo dell’albergo di Surin, mentre aveva un’ottima opinione del Benjamin di Kamala, e la mia innata pigrizia mentale – non avevo voglia di impegnarmi con cartina e guida! – e così mi sono lasciata accompagnare a Kamala. Dal mio albergo vedevo una lingua di sabbia bianca sotto alle palme e di sera, verso le 22, i ristorantini sulla spiaggia già si preparavano a chiudere: un posticino dimenticato da Dio, quello che faceva per me. Una sera al tramonto, mentre passeggiavo sul bagno asciuga, mi viene in contro un uomo: riccioli neri fino alle spalle, occhi che ridono, sorriso sveglio, un corpo longilineo e asciutto.

 

DSCN0881“Vuoi fare un massaggio?” mi chiede – che in Thailandia e’ una filastrocca continua ad ogni angolo! Io ho incrociato i suoi occhi appena – la mia era una vacanza in solitaria e non avrei mai stravolto i miei i miei progetti, nemmeno con chiacchiere da bar – e ho tirato dritto rispondendo appena con un no, secondo me, deciso. La sua insistenza unita al suo modo gentile e simpatico mi hanno impedito di proseguire, così, di fronte a un banana shake, abbiamo chiacchierato a lungo. Abbiamo passato insieme il giorno dopo e quello dopo ancora. Nel tardo pomeriggio, quando Alee – il suo nome – finiva di lavorare, mi portava in giro ovunque, poi a cena, poi con gli amici, finché sono tornata in Italia.

To be continued…

Gen 21

Perché vivo la Thailandia

 

DSCN0653“Vai in Thailandia, è un Paese bellissimo e la vita costa poco!”, così quattro anni fa, a ridosso del Natale, sono partita per la mia vacanza low cost, non consapevole di quanto invece mi sarebbe costata, e non in termini economici! Avevo bisogno di una vacanza fuori dai miei schemi, e dopo un paio di settimane in giro per la Thailandia sono andata nel nord, a Chan Mai, dove ho lasciato la mia valigia in una guesthouse, ho preparato uno zainetto con un asciugamano per il bidet, due paia di mutande, due magliette, il bikini, lo spazzolino da denti e il dentifricio. Per una settimana ho deciso di dire addio al computer, al silkepil, allo scrub, alle creme per il corpo, allo smalto. Volevo andare a piedi, camminare, scalare.

 

DSCN0642Sentivo che mi serviva il contatto con la natura, dove i bisogni non esistono. Così mi sono affidata a una guida locale. Camminavamo per una media di sette ore al giorno, raggiungevamo villaggi sperduti senza acqua corrente né luce dove pescavo e sciabattavo per la giungla selvaggia. Non ho mai fatto più fatica in vita mia: le zanzare, l’umidità e il caldo maledetto non mi davano tregua e non mi dava tregua il fatto di sapere che all’arrivo mancavano ancora quattro ore, tre ore, due, che il giorno dopo sarebbe stato uguale, che mentre rampavo su quei sentieri umidi e

 

DSCN0645scivolosi non potevo pensare e volare via coi pensieri, ma dovevo rimanere lì, con gli occhi puntati su dove mettevo i piedi. E ogni ora raddoppiava, i giorni ma sembravano di 36 ore, la settimana un mese: c’ero solo io, nella giungla selvaggia. E la mia guida, Pond. Senza di lui – giovane thailandese con età anagrafica di ventidue anni, dichiarato alla nascita sei anni dopo poiché i genitori non avevano i mezzi per arrivare all’ufficio nascite – sarei ancora là.

 

 

DSCN0636Ogni volta che gli chiedevo quanto mancasse all’arrivo mi rispondeva ridendosela: “three hours, but for you Debby six hours”, sarà anche per questo che il tempo non sembrava passare mai. Non potrei mai più ripetere un’esperienza simile, sebbene per la prima volta mi sentissi soddisfatta e fiera della strada che avevo percorso con le mie gambe. Mi sentivo piena di energia e svuotata da quei pensieri che complicano la vita di ogni giorno. Ero finalmente pronta a tornare in Italia e riprendere la mia vita e il mio lavoro.

To Be Continued…

Gen 01

Il piccione Paleolone Pallone

IMG_3767Per i miei amici, per i bambini che eravamo:

una storia sull’amicizia e sugli incontri che fanno battere il cuore!

La distanza qualsiasi essa sia non conta, conta solo la vicinanza dell’anima.

Buon Anno!​

Crù crùùù! Ciao, sono Paleolone Pallone: Paleolone il nome e Pallone il cognome, chiamatemi pure Pallone, o Paleolone o PaleolonePallone, c’est à vous la choix, a voi la scelta!

Crù crùùù! Paleolone Pallone – bien sure! – il netturbino della stazione. Volo sui binari, sfreccio tra una carrozza e l’altra, piroetto tra i viaggiatori sino a scendere in picchiata e oplà, con una sterzata d’ali atterro puntando il becco nelle fessure per raccogliere… le bricioline! Lavoro di raffinata precisione, nel quale velocità e prontezza non sono un’eccezione! Oui oui oui, mes amis, per Paleolone Pallone il Piccione, pour Paleolon Pallon le Piccion presto e bene vanno a braccetto insieme!

Una briciolina qua e una briciolina là! Un tocco di becco e una spazzata d’ali e tutte le bricioline finiscono nella mia bisaccia! Via giù in picchiata di là e un salto in alto di qua, il lavoro di Paleolone Pallone è una vera ossessione!

A volte però che fatica farsi accettare! Crù crùùù! Sono proprio quelle volte in cui io, Paleolone Pallone, sono l’ossessione! Giravolta in orizzontale e poi giù roteando soave alla vista di una briciolina. Il mio moto d’ali però, provoca scompiglio tra gli esseri umani: aaaah ah ooooh uuuuuh!!! Via, via, vai viaaaaa! Ma le bricioline sono proprio lì vicino, come faccio? Devo andarmene? Io sono Paleolone Pallone il netturbino della stazione! E chi altri dovrei essere? C’est moi… perché non posso essere me stesso?

Idea! Per riempire la bisaccia sarò più leggero dei fringuelli e più acuto delle aquile! Oui oui, pronto come un gatto in attesa e silenzioso come il passo del serpente! Coglierò le bricioline all’improvviso e di soppiatto! Me ne starò a terra, invisibile e fermo come un camaleonte ad aspettare il momento buono!

Paf paf paf…pas de crù crùùù…alcun crù crùùù! Non devono sentirmi né vedermi, striscerò a terra con il passo del giaguaro: swiss swiss swiss ad afferrare le bricioline ai piedi delle persone! Signore e signori me voilà, rieccomi: Paleolone Pallone il netturbino della stazione in versione swissiolante, swiss swiss!

Ha haaaaaaa yahooooo swiss in scivolata da una parte all’altra del binario e la mia bisaccia è di nuovo piena di bricioline! Mi chiudo a riccio e roteo come una palla: mais bien sur, je suis Le Pallon! Però, che fatica essere quello che non sono…le mie zampe non mi reggono più…e che sete: è l’ora della granita crù crùùù, crù crùùùù! Crù crùùù oh noooo no! Ssst sssssssst zitto Paleolone, ti hanno sentito, fai silenzio, ssssst! Chiudo gli occhi così non mi vedrà nessuno!

Oh ma…che cosa succede? Tum tum tum, che cosa piove dal cielo? Come faccio a guardare, se apro gli occhi mi vedranno…oi oi, aia!!! Coraggio, apro un solo un occhio…ullalà ma questo è un cucciolo di essere umano! Però non è come tutti gli altri: è grassoccio, rotondo come una palla – Palla? Io sono Pall one! – e con quelle vetrinette sembra che abbia quattro occhi, due dei quali sono azzurri come il cielo e guardano contemporaneamente il suo becco pieno di quadratini di ferro. Certo che questi umani sono proprio strani: non hanno il becco a punta!

Oi oi, ma…crù crùùù! C’est mervelleux! E’ meraviglioso: piovono bricioline! Il piccolo Palla mi butta le sue bricioline e la mia bisaccia ora è di nuovo piena crù crùùù, crù crùùù!

Il treno del mio nuovo amico sta partendo: adieu, addio! Addio Pallina, quando tornerai il tuo amico Paleolone Pallone sarà qui per te crù crùùù! Prendo una bella rincorsa e voilà, roteando in alto seguo il treno per salutare Palla fino all’ultimo!

Che faticaccia oggi, è più facile fare il netturbino volando, però se non fossi sceso a terra non avrei incontrato Palla… Oh chi ci capisce qualcosa in regalo la mia bisaccia piena di bricioline: les jeux ne sont jamais faites, i giochi non sono mai fatti: è la vita crù crùùù!

Paleolone Pallone ora vola alto tra le nuvole, sa che domani farà il doppio della fatica perché dovrà correre in scivolata per tutta la stazione… sssst pas de crù crùùù, alcun crù crùùù! Oggi però si sente leggero e il suo cuore batte per il suo nuovo amico Palla crù crùùù!

Dic 11

The Rice Cooker

IMG_1427Di fronte al tuo bambino, anche se sei Angela Merkel, l’autostima e la fiducia possono vacillare e spesso anche…io sono stata messa a durissima prova durante lo svezzamento. Non cucino, non mi piace, e, nonostante i miei sforzi, è un’attività che mi riesce male, cosa che cozza contro il manuale “Da 0 a 6 anni, una crescita per la famiglia”. La difficoltà non sta nel preparare il brodo vegetale, cuocere al vapore, passare le verdure e sciogliere la crema di riso ma nel faretuttoinsieme, o almeno in una sequenza lineare. In Italia, la mia cucina non poteva sopportare tanto: non c’era spazio per due pentole, due scolini, l’asse per tagliare le verdure, la scodella per la crema di riso e cucchiai e coltelli – non avendo mai cucinato tendo a perdermi in un bicchiere d’acqua mezzo pieno al primo step! –IMG_1428

L’esperienza fa la differenza, ma io non ne avevo e non davo segni di miglioramento. E gran parte della mattina volava via per 400 gr di pappa con tutto ancora da riordinare. Risultato: autostima sotto i piedi e stress. In Thailandia ho risolto definitivamente la questione con la rice cooker. E’ una pentola elettrica, molto utilizzata in Asia per cuocere il riso, alimento fondamentale presente ad ogni pasto della giornata (e per ogni pasto intendo anche la colazione!!). In pratica: nella pentola metto acqua e verdure per il brodo, copro con una specie di padella con i buchi dove si preparano le verdure al vapore e posiziono il coperchio. La rice cooker è fatta di due strati comodi e pratici. Tempo d’impiego: un’ora. Una volta che brodo e verdure sono pronti la rice cooker tiene tutto in caldo. Risultato: mi sento            qualcuno in cucina…Rice cooker forever!

 

 

Nov 08

I no che fanno crescere: ma come si fa?

  • “Mio figlio non capisce quando gli dico no. Ma tu che sei psicologa come fai?”

  • “…”

  • “Quando una cosa non si può fare non si fa, o no?”

  • “Ti andrebbe un caffè?”

Quando mi confronto tra mamme e mi vengono fatte delle domande dirette, tendo a spostare la conversazione, poiché il mio lavoro o i miei studi non fanno di me una mamma più acuta rispetto alle altre. Inoltre, un buon caffè è un buon caffè, e non si discute…

A proposito dei “no”, facciamo un esercizio, mettiamoci nei panni dei nostri bambini, liberiamo la mente e:

  • “ NON pensiamo a un cane rosa!

  • Ho detto di non pensare a un cane rosa NO, NO e poi NO, non si fa e se dico di NO è NO, chiaro?

  • Insomma basta, ho detto di non pensare a un cane rosa, che cosa succede?”.

Succede che abbiamo pensato a un cane rosa. Abbiamo fatto la stessa cosa che fanno i nostri figli tutte le volte che diciamo loro di non fare una cosa. In realtà, non “abbiamo disobbedito”, anzi, siamo in perfetta sintonia con l’attività del nostro cervello che, peraltro, funziona benissimo. Quello che emerge da questo esercizio è quello che c’è da sapere: il nostro cervello non capisce il no, è organizzato in modo tale che non comprende la negazione. Noi adulti siamo più veloci, capiamo quando non dobbiamo mangiare un cibo, bere una bevanda, stare alla larga da un pericolo o rispettare un divieto in quanto abbiamo esperienza, ne abbiamo memoria, abbiamo imparato a conoscere e, col passare del tempo, siamo diventati sempre più consapevoli di ciò che accade attorno a noi. Quando, ad esempio, diciamo ad un bambino “non ti muovere”, il suo cervello registra “muoviti” e “non”, ovvero due diversi messaggi che si contraddicono l’un l’altro. In altre parole, capisce “muoviti”. In più, spesso, molte situazioni sono ad alto impatto emotivo: il pericolo che il bambino si faccia male è reale, la preoccupazione genera tensione, ci arrabbiamo e alziamo la voce. In questo modo, si crea una confusione ancora maggiore nella testa del bambino, il quale non è nella condizione di comprendere e di agire di conseguenza.

Tra gli otto e i dodici mesi i bambini pronunciano le prime parole, ma già da qualche tempo utilizzano tutti i cinque sensi per imparare. Lo sviluppo del linguaggio inizia presto ed è graduale: comprende parole, gesti, significati, é un’impresa appassionante ma non sempre facile. Un bambino che vuole fare da solo, che trasgredisce, che “si impunta e non molla” è un bambino vivace e sano (a meno che non vi siano diagnosi di disturbo cognitivo o di personalità). La questione è dunque spinosa: come trasmettere regole e divieti che vengano capiti e messi in atto poiché “no” e “non si fa” non funzionano (almeno non funzionano sempre!)? Sembra infatti che i “no che fanno crescere” portino a ben pochi risultati, mentre abbiano effetti migliori esperienze “positive” del divieto.

Secondo gli esperti dell’età evolutiva, perché un’esperienza sia positiva e produttiva per un bambino – a noi interessa che nostro figlio/figlia non faccia una determinata cosa!- è essenziale: scandire bene le parole perché capisca; comunicare con tono pacifico per non creare tensione; guardarlo negli occhi per avere la sua attenzione. Ad esempio, pensiamo a quando impariamo una lingua straniera, un programma del computer o quando acquistiamo un cellulare e dobbiamo capire come funziona: abbiamo bisogno di istruzioni chiare e un ambiente tranquillo per concentrarci e imparare delle cose. Far capire a un bambino – soprattutto se ha tra i dodici mesi e i tre o quattro anni- che una cosa non si deve fare, è un’impresa difficile, e casa nostra, il parco o il centro commerciale spesso diventano una palestra di lotta libera!

Io mi arrangio con un semplice gioco, che richiede un pizzico di creatività da parte mia e che con mia figlia, che ha un anno e mezzo, il più delle volte funziona. Quando fa qualcosa che non può, se le condizioni me lo permettono, mi esercito a fare del divieto “un’esperienza positiva”. In pratica, proibisco, vieto, do delle regole ma senza utilizzare le parole “no” e “non” – ricordo che da piccola facevo un gioco analogo in cui chi rispondeva sì, no, bianco e nero perdeva! In pratica: quando vuole prendere in mano il coltello dico: “ questo lo puoi utilizzare a nove anni”. Idem col caffè, il cacciavite o qualsiasi cosa dimentico per casa; quando vuole camminare in mezzo alla strada: “solo le macchine possono passare di qua, le persone e i bambini stanno sul marciapiede”; quando vuole toccare un gattino che non conosciamo o un bambino nella culla: “ fai una carezza piano, con molta dolcezza”; quando vuole mettersi la mia crema: “ questa è della mamma e questa è di Lanna!”. A volte mi limito a descrivere la cosa che vuole toccare: “ la presa della luce ha i buchi troppo piccoli per le tue ditina”; “ la cariola è pesante”; “ la pappa scotta ancora”. Non é sempre facile, spesso mi escono delle frasi davvero assurde! Una volta, dopo una giornata di lavoro, fuori dal supermercato, carica di borse, la pioggia e con la mia bimba che non ne voleva sapere di entrare in macchina ho detto: “Lanna si bagna i capelli”, ancora non capisco il motivo, ma queste parole, pur lasciandola incredula, hanno dato i loro frutti ed è entrata in macchina.

Credo che funzioni la voglia di comunicare con la mia bambina secondo un linguaggio semplice e chiaro e la mia volontà di farle riconoscere i pericoli, in modo che possa muoversi in libertà nello spazio utilizzando le cose che incontra nel suo percorso di crescita.

Quindi, unica regola del gioco: non utilizzare “no” e “non” … anzi entriamo nel gioco da subito: utilizziamo tutte le parole tranne le impronunciabili … che il nostro cervello é in grado di capire solo ad un certo punto dell’esistenza.

Set 06

La fascia tuttalavita: parte I

 

imageLa prima volta che ho portato Lanna nella fascia sembrava di avere un pulcino sdraiato sul petto: la sentivo rilassata e completamente abbandonata, ma, allo stesso tempo, al sicuro, perché ben sostenuta dall’imbragatura. La cosa più difficile è mettere la bimba nella fascia, ma si tratta di una difficoltà psicologica come quando si ha a che fare con un qualsiasi cambiamento… E’ molto lunga, ed è un aspetto che spaventa. La prima volta – ma anche la seconda e la terza! – pensi: e adesso? All’inizio mio marito mi dava una mano, mentre oggi con un po’ di pratica annodo la fascia da sola senza alcun aiuto. I primi sette mesi di vita della mia bimba sono stata in Italia e dove abitavo, in Provincia di Mantova, nessuno porta i bambini nella fascia e al parco o lungo la ciclabile incontravo carrozzine e passeggini.

imageMi guardavano con stupore e un po’ di sorpresa e talvolta alcune vecchiette si lasciavano andare a commenti quali “ma non è scomoda? “AVRA’ UN CALDO!!!” e il mio preferito “poverina… guarda dove l’ha messa!”. Il commento sul caldo però alla fine mi ha condizionato – eh le mamme “dapocotempomamme” si lasciano sempre circuire mentre dovrebbero avere più fiducia in se stesse! – e durante l’estate ho riposto la Didymos e ho comprato la Mei Tai in uno dei negozi più innovativi per bambini di Mantova, Pisoli e Pannoli. E’ un prodotto italiano e conserva quei requisiti essenziali di manifattura e qualità dei materiali. L’ho utilizzata sempre: abbiamo visitato Roma, i ghiacciai in alta montagna, abbiamo fatto shopping a Milano e lunghe passeggiate al mare.

imageHo preso ogni sorta di mezzo: l’autobus, il treno, l’aereo, la metro, la barca, la funivia e la mia bimba poteva dormire pacifica anche in mezzo alla confusione! La Mei Tai è molto più semplice da indossare ma quando Lanna ha superato i 5 kg sono tornata a utilizzare la Didymos: la speciale struttura sostiene la schiena in modo tale che non si avverte dolore, anche dopo un’intera giornata in giro e nonostante l’aumento di peso (con la Didymos si può portare un bambino sino a 15 kg di peso!) .
Considero la fascia uno strumento che mi permette di portare Lanna in un modo che è nelle mie corde. Le mani libere sono un toccasana per lo spirito: faccio la spesa, shopping e colazione al bar. E’ vero che se il bambino capisce che si trova nell’imbragatura cosicché la mamma possa fare dell’altro, come finire le pulizie ad esempio, può rifiutare di starci. I bambini sono molto sensibili, capiscono subito come stare dentro la relazione e se sono al di fuori della nostra attenzione e cura – soprattutto se l’obiettivo è passare del tempo insieme! – non aspettano un minuto per farcelo notare! Non credo a chi dice “con la fascia crei un legame esclusivo e poi la bimba vuole stare solo in braccio alla mamma”. Penso che la fascia sia uno strumento che, oltre a essere molto pratico, consolida e arricchisce la relazione mamma-bambino.

imageLe prime settimane, i bambini sono molto piccoli, hanno bisogno di sicurezza e vicinanza poiché hanno molta paura e si spaventano facilmente. Pediatri e ostetriche infatti consigliano di stare loro vicino, abbracciarli e cullarli. La fascia permette loro di adattarsi all’ambiente in modo graduale, con un orecchio rivolto al cuore della mamma e l’altro al mondo esterno. I bambini nella fascia si tranquillizzano e questo senso di tranquillità viene interiorizzato e portato dentro di sé. In questo modo si consolidano le basi per l’autostima e la sicurezza di sé, fondamentali per lo sviluppo cognitivo e della personalità. Quando Lanna capisce che è il momento di entrare nella fascia sbatte le gambette veloce, felice mi stringe le braccia al collo e non si muove finché non è stretta nell’imbragatura. Ha capito che con la mamma o il papà sta per andare da qualche parte e che le capiterà di vedere qualcosa di meraviglioso: il Colosseo, il Duomo di Milano, il mare, i ghiacciai e le cascate in alta montagna, ma anche gente nuova da osservare.

Ago 13

Omaggio a Robin Williams – 11 Agosto 2014

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–          Perché sono salito quassù? Chi indovina?
–          Per sentirsi alto!
–          No! Grazie per aver partecipato… Sono salito quassù, sulla cattedra, per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! E’ proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarle da un’altra prospettiva. Anche se può sembrarvi sciocco o assurdo ci dovete provare. Ecco: quando leggete non considerate soltanto l’autore, considerate quello che voi pensate. Figlioli, dovete combattere per trovare la vostra voce. Più tardi comincerete a farlo, più grosso il rischio di non trovarla affatto. Thoreau dice “molti uomini hanno vite di quieta disperazione”, non vi rassegnate a questo. Ribellatevi. Non soffocate nella pigrizia mentale, guardatevi intorno. Osate cambiare, cercate nuove strade.

L’attimo fuggente

 

Era il 1989, avevo 15 anni e l’entusiasmo di chi crede ciecamente alle parole del prof. Keating. Nel 1997, usciva Will Hunting – Genio ribelle, frequentavo il secondo anno di psicologia: decisi che avrei fatto lo stesso lavoro del Dr. Sean McGuire.

A 40 anni, le parole del famoso monologo pronunciato dal prof. Keating hanno un senso diverso, poiché dopo 25 anni, semplicemente, tutto ha un senso diverso. Egli incoraggiava gli studenti del tradizionalista collegio 673d5fc5b78ea2f1cdf13feeb05289e1maschile Welton a guardare le cose da una prospettiva diversa, a ribellarsi alla pigrizia mentale, a cercare nuove strade. Chiedeva ai suoi studenti di “sentire”, non di conoscere, per questo era un professore fuori dagli schemi.

Oggi, a scuola, chiediamo ai ragazzini di svolgere temi sulle loro esperienze più memorabili e di trarne una morale, mentre invece è proprio la vita sulla quale meno si riflette, la vita non sottoposta a digestione e che sentiamo ribollire in pancia che vale la pena di vivere: anzi, lo scopo della vita, negli anni giovanili, è viverla.

Abbiamo il preciso dovere di sostenere i nostri figli a vivere la loro vita considerando ciò che essi stessi pensano, sono, amano. E noi adulti, genitori, insegnanti, educatori, professori, quando crediamo di sapere qualcosa sui nostri ragazzi dobbiamo guardarli da un’altra prospettiva, anche se può sembrarci assurdo o sciocco ci dobbiamo provare.

Grazie capitano perché mi hai ispirato.

Grazie Robin Williams.

Ago 04

Il mito di Er

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Ne “Il codice dell’anima”, Hillman si ispira al mito di Er che Platone pone alla fine de La Repubblica, un’opera antichissima, scritta circa duemilaquattrocento anni fa. Il mito parla dell’anima, termine che non deve essere inteso in senso religioso. Infatti, essa riguarda un aspetto interiore dell’essere umano, che agisce in base a regole e bisogni molto diversi rispetto a quelli del corpo, ma che come il corpo ha necessità di nutrimento e cure. L’anima ha interessi, desideri, passioni che manifesta secondo logiche che non sono decifrabili a prima vista. Inoltre, Hillman ci fa notare un aspetto molto interessante, ovvero che il concetto di anima è presente in quasi tutte le culture sulla terra ed è considerato il nucleo della personalità (proprio perché è considerato il nucleo della personalità, viene da chiedersi perché noi occidentali lo abbiamo eliminato dai testi di psicologia e di psichiatria!).

La mitologia greca ha un ruolo importante nella nostra cultura. Come le scienze (in particolare la genetica delle popolazioni, la biologia, la paleontologia) ci insegnano che la prima cultura muove i suoi passi in Africa – eh sì siamo tutti africani, e dobbiamo mettercelo in testa! – e con la teoria dell’evoluzione Darwin ci svela che eravamo delle scimmie – questo sembra già più facile da accettare! – allo stesso modo la cultura e la tradizione hanno subito profonde trasformazioni. Da sempre, l’uomo migra, cambia habitat, si ingegna per sopravvivere alla natura e dove si insedia costruisce, trasforma, bonifica non solo in senso pratico ma anche culturale e sociale. Dunque, semplificando, oggi possiamo dire di essere un popolo italiano, francese o tedesco, ma un tempo eravamo un popolo latino, prima ancora greco, più in dietro nel tempo assiro e così via, sino a quando l’uomo era una scimmia e viveva in gruppo nel continente africano. In altri termini, l’evoluzione riguarda non soltanto il nostro pianeta e l’uomo ma anche la cultura e la tradizione. La mitologia greca appartiene al nostro passato culturale– siamo stati greci! – e, per quanto ne possiamo sapere oggi, l’idea di anima risale a circa duemilaquattrocento anni fa, grazie al filosofo greco Platone, che, nelle sue opere, si rifà ai miti greci. In base alla “genetica delle culture”, il concetto di anima ci appartiene di diritto, è soltanto che abbiamo smesso di occuparcene. Infatti: pensiamo mai all’anima di nostro figlio? Oltre alle cure fisiche – pappa, cacca, nanna – consideriamo la cura dell’anima? Cioè, come genitori, siamo disposti a interessarci al mondo interiore dei nostri figli? O diventa un aspetto da considerare soltanto quando manifestano delle difficoltà?

Il mito di Er spiega che prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un disegno di vita che poi vivremo sulla terra. L’anima sceglie il corpo, il luogo, i genitori, le situazioni di vita adatte all’anima stessa e corrispondenti alle sue necessità. Inoltre, l’anima riceve un compagno – daimon – che ci guiderà. Una volta venuti al mondo, dimentichiamo la nostra scelta. E’ Il daimon che ci ricorda i contenuti del nostro disegno di vita, è il daimon il portatore del nostro destino, o vocazione (termini da intendersi come sinonimi). Platone racconta questo mito affinché non dimentichiamo la nostra anima e le sue scelte.

Perché il nostro destino si compia, il daimon si mette all’opera sin dall’infanzia e non è possibile sbarrargli la strada. I problemi e le difficoltà dell’esistenza fanno parte del disegno di vita che ci siamo scelti, sono necessari e contribuiscono a realizzarlo. La vocazione può essere rimandata, negata, persa di vista, non importa: alla fine verrà fuori, perché il daimon non ci abbandona e ha il duro compito di aiutare l’anima a realizzare la sua vocazione. Sin dai tempi più antichi, filosofi e poeti hanno cercato un nome per indicare il destino o la vocazione. Per i latini era il genius, per i cristiani l’angelo custode, per gli eschimesi lo spirito, per gli egizi il Ka o Ba, per i greci il daimon.

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Il codice dell’anima ha per argomento il destino, la vocazione, il carattere: le cose che, insieme, danno sostanza a quella che Hilman chiama “teoria della ghianda”. La ghianda è il seme che diventerà una quercia enorme, e per Hillman diventa metafora fondamentale dell’esistenza: l’immagine di un intero destino sta tutta stipata in una ghianda. Questa teoria spiega che ciascuno di noi è portatore di un’unicità che chiede di essere vissuta e la voce che chiama è forte e insistente quanto le voci repressive dell’ambiente (ovvero la famiglia, la scuola, il gruppo di amici).

Dunque, che cosa potrà mai trovare di tanto interessante una mamma che tutti i giorni ha duecento milioni di cosa da fare ne Il codice dell’anima? Moltissimo, perché inizierà a riflettere sull’anima del proprio bambino, sulla sua unicità e a pensare che non è venuto al mondo da solo, bensì con un angelo custode, o daimon.

 

 

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