Questa mattina in spiaggia, riflettevo su un paradosso che riguarda molte mamme. La questione è: per quale motivo teniamo i bambini senza costume da bagno lasciandoli liberi, come si dice, e non abbiamo la libertà di chiamare i genitali col loro nome, ovvero pene e vagina? Chiamiamo tutte le parti del corpo col loro nome: il gomito è il gomito e non il coccodrillino; il ginocchio è il ginocchio e non il pallino! Chiamiamo invece la vagina passerina, farfallina, cosina, chitarrina, ciccina, ecc; il pene pisellino, pipino, pistolino, ecc. Mentre al mare scopriamo i genitali dei nostri bambini, con questi nomignoli nascondiamo qualcosa. Che cosa?
Facciamo un piccolo esercizio. Mentre siamo sul fasciatoio per il cambio, osiamo dire a voce alta una semplice frase: adesso laviamo il pene o la vagina – nel caso di un maschietto o di una femminuccia. Subito dopo ascoltiamo che cosa si muove dentro di noi: si è chiuso lo stomaco? Ci sentiamo imbarazzate? Abbiamo addosso una sensazione di sporco? Se è così, ci siamo vergognate di aver chiamato il pene e la vagina col loro nome.
La vergogna è un’emozione di secondo grado, come si dice in psicologia, poiché non è istintiva come la paura – di primo grado – bensì trasmessa. Significa che ci hanno “trasmesso” quando e su che cosa provare vergogna. In questo caso, abbiamo chiamato per anni la vagina e il pene passerina e pisellino – così ci parlavano i nostri genitori, i nostri nonni. La vergogna è stata trasmessa attraverso questi vezzeggiativi che in realtà altro non fanno che ridicolizzare, ridurre, sminuire l’intimità del bambino e della bambina sino a farla in pezzi. Il pene e la vagina sono parti del corpo, come il gomito e il ginocchio, ma con l’educazione hanno assunto connotazioni “cattive”. E come tutto ciò che è cattivo, non si nomina, si deve nascondere. Ecco che allora nascondiamo una cultura che sa di vecchio e che ci è stata inculcata senza darci la possibilità di scegliere se appoggiarla oppure no.
Abbiamo il preciso compito di essere consapevoli dell’educazione che impartiamo ai nostri figli. In particolare, ritengo sia fondamentale aiutarli ad apprezzare il loro corpo senza sminuirlo o ridicolizzarlo, perché soltanto in questo modo in futuro i nostri bambini avranno maggiore probabilità di essere uomini e donne “tutto d’un pezzo”, sicuri di se stessi e della loro sessualità, rispettosi della propria intimità e di quella degli altri. Questo paradosso va ribaltato: in spiaggia nascondiamo i genitali dei bambini facendo indossare loro il costume da bagno, tutti i giorni chiamiamo in libertà il pene pene e la vagina vagina.
A mamme e papà consiglio una terapia d’urto che sarà di grande aiuto: la lettura de “I monologhi della vagina”.
Lug 08
In spiaggia
Giu 01
Il Primo Viaggio in Thailandia con Lanna!
Raggiungere Alee, mio marito, in Thailandia è stato più facile di quanto pensassi: mia figlia di otto mesi ha affrontato il viaggio con curiosità e dormendo la maggior parte del tempo. A sentire tutti non ce l’avremmo mai fatta ad affrontare“da sole” un viaggio di 14 ore dall’altra parte del mondo: la bimba riuscirà a prendere sonno? Che cosa fai se piange? E SE NON CI VUOLE STARE IN AEREO PER 12 ORE? In effetti, ero molto angosciata, poi però affrontando la cosa…
Le mamme che viaggiano con un bebé hanno diritto alla prima fila e le hostess hanno persino bloccato un posto a sedere di fianco al mio così che potessi muovermi in libertà. Oltre a uno zaino pieno di pannolini, tutine e body per il cambio, vasetti con la pappa e il mio computer, potevo contare sulla fascia e sul cuscino per allattare. Fascia e cuscino si sono rivelati fondamentali poiché hanno permesso a me e alla bambina di muoverci e di mantenere alcune abitudini. Grazie al cuscino ho allattato comodamente, mentre la fascia mi consentiva di cambiare posizione – stiracchiarmi, allungare le gambe –e di spostarmi con Lanna vicino, ad esempio quando andavo al bagno! Quelle preoccupazioni che non mi hanno fatto dormire per notti intere – 12 ore di volo, il buio pesto in aereo, la confusione in aeroporto di una città quale Bangkok, il cambio per Phuket – si sono rivelate per la mia bimba esperienze nuove da osservare tra un pisolino e l’altro. Credo che la paura di affrontare il viaggio in realtà nascondesse qualcosa d’altro…
Prima di partire mi sono trovata faccia a faccia con quel sentimento di solitudine che spesso vive una mamma in presenza del proprio bambino. Se da un lato tale sentimento è umano, allo stesso tempo credo sia carico di pregiudizi, ovvero giudizi, considerazioni, pensieri che provengono dall’ambiente sociale in cui vivo. Se analizzo la situazione capisco che la paura di affrontare questo lungo viaggio fosse legata a una decisione che usciva dal buon senso comune. In altre parole, stavo per fare una cosa che non avevo mai sentito fare a nessun’altra mamma. Mentre preparavo le valige per la Thailandia, avevo in testa un immaginario gruppo di mamme che diceva: i bambini devono avere delle routine, dormire nel loro lettino, rispettare gli orari e andare a letto quando è ora… potrei continuare a lungo!!! I discorsi di queste signore mi stavano paralizzando, poiché, non lo nego, lo status di mamma può spalancare un portone enorme su paure, insicurezze e senso di inadeguatezza nei confronti di tutto ciò che riguarda la maternità e le scelte di una mamma. Avevo deciso di partire, davanti a me si stava aprendo una strada che non sapevo dove ci avrebbe portato o forse lo sapevo benissimo, ma il punto è un altro! Io non credevo di essere in grado di affrontare con mia figlia un viaggio che avevo già fatto molte volte da sola. Paure e insicurezze alla fine non mi hanno prosciugata ma sono partite con me, soltanto in questo modo sono riuscita a ridimensionarle e a smentirmi. Mi sentivo diversa e spregiudicata rispetto a un “classico” modo di essere mamma, sebbene “la classica mamma” fosse solo un pensiero contaminato nella mia testa.
Sono convinta quando dico che il compito più difficile per una mamma sia quello di riorganizzare i pensieri per stabilire, in merito a qualsiasi decisione presa (sia essa legata all’alimentazione del proprio figlio o al trasferimento in un altro continente!) quali le appartengono e quali no, quali sono i suoi propri giudizi e pensieri profondi e quali invece sono contaminazioni che provengono dagli altri. Chiarito questo “le distanze si accorciano” e quel sentimento di solitudine che si avverte diventa sostenibile. Ho capito che stavo vivendo paure trasmesse dal buon senso comune e le trasferivo sulla bambina. Tale consapevolezza mi ha permesso di partire per il mio viaggio avendo più fiducia nelle capacità di adattamento della mia bambina e, spero, nel mio modo di essere la mamma.
Mag 26
Il Codice dell’Anima
Mi capita spesso che mamme in difficoltà col proprio bambino mi chiedano un consiglio su che cosa leggere. Grazie al mio lavoro – di educatrice e di psicologa – ho capito che la paura più grande di una mamma è quella di sbagliare. L’alimentazione, il sonno, il gioco, le relazioni con gli altri bambini, e ancora la scelta di prolungare l’allattamento, la decisione di iscrivere il figlio al nido – la lista non finisce di certo qua – sono tutti ambiti in cui la mamma, a livello più o meno consapevole, sente di avere paura di non fare del suo meglio e di far soffrire il proprio bambino. Succede allora che se ne parli tra mamme, che si interpellino specialisti o che si vada alla ricerca di un libro che illustri un metodo che funzioni. Consigli e tecniche però, una volta messi in pratica, rivelano i loro limiti e sembrano insufficienti ad assolvere il loro compito. Il bambino continua a non dormire, a non mangiare, a non ascoltare, a opporsi e qui, preciso come un bisturi dal taglio sottile, si insinua il dubbio: “dove sbaglio?”, e poi “come posso fare?”.
Ho scelto un libro alquanto insolito per una mamma, poiché esce dagli schemi della psicologia dell’età evolutiva e della pedagogia comunemente conosciuti. James Hillman (psicologo analitico, discepolo di Jung) nel libro “Il codice dell’anima” affronta un tema fondamentale: l’esistenza. L’argomento è complesso, soprattutto se pensiamo che poeti e filosofi se ne occupano da millenni! La mia sfida consiste nell’aprire una porta nell’immaginario materno che si discosti dal buon senso comune e che ci aiuti a porre domande diverse da quelle che quotidianamente ci facciamo. Le mamme quando si rivolgono a me hanno uno di questi problemi o più di uno insieme: “mio figlio non mangia, non cammina ancora, chiede il seno di continuo, non sta fermo, è disattento, è timido, non gioca con gli altri bambini”. A quel punto mi chiedono: “che cosa devo fare? Come posso aiutarlo? Sbloccarlo? Sostenerlo? Ci starà male? Soffrirà? Gli provoco un trauma?”.
Ne “Il codice dell’anima” l’autore sceglie una strada inesplorata che ci porta a considerare il punto di vista del bambino. L’argomento non è dei più semplici, poiché parla del destino e della vocazione dei nostri figli, termini che non si trovano nei testi di psicologia e che non usciranno mai dalla bocca del nostro pediatra. Allora perché occuparcene? Hillman sostiene che “appiattiamo la nostra vita con il modo stesso in cui la concepiamo. Abbiamo smesso di immaginarla con un pizzico di romanticismo, con un piglio romanzesco” – Immaginazione? Romanticismo? Ma che cosa c’entrano con la pappa e la nanna! -. A sostegno di questi argomenti ci sono grandi idee filosofiche come la bellezza, il mistero, il mito che sono una cura per l’anima e vanno dritte a lenire la nostra paura di sbagliare e di procurare un trauma al nostro bambino. Hillman ci invita a stare dalla parte dei bambini affermando che anch’essi, già da molto piccoli, hanno in testa che cosa fare della propria esistenza, che hanno una vocazione da esprimere.
Avevo regalato il libro a un’amica, la quale mi disse che lo trovava troppo impegnativo – in effetti non si tratta di un’opera da leggere alla luce dell’abat-jour quando, dopo una giornata di lavoro, abbiamo messo i bambini a letto! – pertanto ho deciso di analizzare i temi de “Il codice dell’anima” al fine da renderli fruibili anche a chi non mastica di filosofia e psicologia analitica.
Da educatrice da vent’anni e da mamma da qualche mese, sono arrivata alla conclusione che abbiamo il difficile compito di pensare i nostri figli proiettati nel futuro, poiché i bambini da subito iniziano ad andare in contro al loro destino e la loro vocazione si rivela, in modo più o meno chiaro, già durante primi anni di vita: diventerà uno sportivo? Un ricercatore? Un genitore premuroso? Parlerà molte lingue? Fonderà un’attività sua? Si dedicherà agli altri? Andrà a vivere in un Paese diverso da quello d’origine?.
Come direbbe Hillman dobbiamo immaginare la loro esistenza “con un pizzico di romanticismo”. Soltanto questo ci permetterà di pensare ai nostri figli come persone uniche e irripetibili, dandoci la sensazione che il mondo stesso vuole che essi siano al mondo, che non è un desiderio soltanto di mamma e papà. Il codice dell’anima non dà risposte pratiche, non svela il metodo giusto per risolvere i problemi quotidiani ma ci toccherà nel profondo, e toccherà l’idea che abbiamo dei nostri figli. Il libro è un atto d’amore indiscusso da parte dell’autore nei confronti del genere umano e credo che la sua lettura sia un atto di benevolenza e generosità da parte di un genitore nei confronti del proprio figlio.
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